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Gino Marchet: l’uomo, il professore, la logistica

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Vogliamo ricordare Gino Marchet con le sue parole.
La redazione de Il Giornale della Logistica

Dall’intervista pubblicata sul numero di ottobre 2011

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“Ho avuto fortuna”. Chi l’ha detto?
Io, Gino Marchet da Stradella, provincia di Pavia. Ho avuto fortuna perché ho iniziato a lavorare come ricercatore in Università appena laureatomi. Non immaginavo che passando dall’altra parte della scrivania mi sarei trovato in un ambiente così stimolante, ricco, in continua evoluzione.

Veramente le critiche abbondano: nepotisti, baroni, una casta di privilegiati…
Queste accuse mi fanno arrabbiare, le giudico offensive. Parlo del Politecnico, l’Istituzione che amo: mi viene la pelle d’oca solo a parlarne. Il Politecnico mi ha dato tutto e al Politecnico e ai suoi giovani dedico tutte le mie energie: qui imperano la meritocrazia e la trasparenza. Nessuno fa carriera per motivi diversi dal valore e dalla probità personale e professionale.

Qual è il bello della ricerca?
La libertà: se un tema ci interessa siamo liberi di approfondirlo. E la logistica propone un’infinità di temi interessanti. Il fascino di lavorare in Università è poter studiare questi temi trovandosi in un centro di eccellenza a contatto con colleghi e persone stimolanti e innovative. In azienda rischi di fossilizzarti.

Cosa pensa dei “suoi” giovani?
Mi sento in obbligo di aiutarli e i giovani percepiscono questa attenzione. I giovani sono mediamente molto preparati, molto seri, dediti al lavoro con un impegno spesso eccezionale. È falso che pensino solo a divertirsi. È un piacere dedicarsi alla loro formazione anche perché il loro entusiasmo è contagioso.

Che cosa la colpisce di più?
La facilità con cui parlano in pubblico, per esempio all’esame di laurea, un momento emotivamente intenso, davanti a docenti, amici, parenti. La scioltezza con cui affrontano temi. talora molto ostici. La straordinaria passione e apertura mentale con cui si affacciano alla vita, ai suoi mille problemi ma anche mille opportunità.

Lei è un inguaribile ottimista!
La frase che mi fa più arrabbiare è “Non si può andare avanti così”. Una frase che nasce dal fatto che stiamo troppo bene, ci siamo dimenticati da dove veniamo, da com’era questo Paese negli anni ’50 o ’60. Per non parlare delle situazioni drammatiche in cui si trovano oggi milioni di esseri umani. Come osiamo lamentarci?

Di lei hanno detto: è la logica fatta persona. Vero o falso?
Non saprei: la mia formazione è stata molto pragmatica. Il mio imprinting famigliare è quello della fabbrica: mio padre, oggi in pensione, era direttore di uno stabilimento alimentare nel settore beverage. Nei miei studi, corsi e consulenze sono chiamato a risolvere problemi molto concreti, mai teorici.

Vede che sacrifica la teoria alla pratica!
Per niente: l’accademico è più bravo dei consulenti “privati” proprio perché è anche uno speculativo. È quindi portato, per metodo, competenze, approccio mentale, ad andare al di là delle apparenze, ad interpretare l’esistente, quindi a fare innovazione.

Qual è il collante tra teoria e prassi?
La forza dei modelli matematici, perché negli ultimi tre secoli abbiamo imparato che il linguaggio logico-matematico è la chiave per leggere e interpretare il mondo.

Quando entra per la prima volta in un magazzino che cosa guarda?
Come le persone movimentano la merce. Le soluzioni tecnologiche adottate. Semplicemente osservando i flussi si percepiscono la maggior parte dei pregi e difetti di un magazzino, prima ancora di tradurli in numeri.

Qual è la parte più bella del suo lavoro? E la più difficile?
Avverto la responsabilità di lavorare all’interno di un’Istituzione di fama mondiale. Pertanto, qualunque cosa faccia, mi sforzo di farla al massimo delle mie capacità. Talora mi propongo o mi propongono dei progetti molto complessi e cresce la preoccupazione di non riuscire a fare bene tutto. Ma poi penso al gruppo di giovani con cui collaboro e tutto diventa più facile.

Maurizio Peruzzi


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