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Quattro chiacchiere con Marco Mazzarino, IUAV e Bestever Supplychain: è tempo di cambiare davvero

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Si parla molto delle crisi e delle trasformazioni in atto, ma quanto si sta facendo nel concreto per fronteggiare i cambiamenti e prepararsi al futuro? Secondo l’analisi di Marco Mazzarino, non abbastanza.

Al presentarsi di una nuova disruptions, ci troviamo a pensare che non si è imparato nulla dalla precedente. Qual è la sua lettura della crisi di Suez e del contesto di incertezza diffusa?

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Già dalla crisi pandemica ci si è dovuti rendere conto che non tutto certo e programmabile, che non tutto può essere gestito con un approccio deterministico, da “flusso teso” insomma. Quasi nulla lo è, in realtà, e vediamo infatti, crescere da un lato l’incertezza e dall’altro la difficoltà ad affrontare il cambiamento. La crisi di Suez ne è solo l’ennesimo esempio.

Il punto, quindi, non sono le singole disruptions ma l’approccio?

Quanto accaduto e sta accadendo negli ultimi anni non fa altro che rendere evidente come le catene logistiche – sempre più lunge e complesse – possano essere colpite da numerose e differenti disruptions. Eppure, ancora, sembra permanere l’immagine costruita nel tempo – purtroppo illusoria – di supply chain solide che operano come ingranaggi perfetti. L’incertezza ancora lascia sconcertati e spesso incapaci di reagire in modo coerente.

Come è possibile governare il cambiamento?

Partendo dall’accettazione che il cambiamento è in atto e che bisogna affrontarlo partendo dai nodi irrisolti. Si tratta di un problema di strategia: troppo spesso oggi ci si focalizza su casi singoli ma si fatica ad affrontare complessivamente i nuovi scenari che si vanno delineando. Si discute molto, insomma, ma il processo di analisi è ancora acerbo e di conseguenza si riesce a far poco, nel concreto.

Per contro, cosa si dovrebbe fare?

C’è bisogno di sviluppare e adottare nuovi modelli di business, nuovi strumenti e nuove strategie per affrontare l’incertezza, il rischio, in modo sistematico. Credo che l’aspetto più sconfortante della questione sia che mentre si parla e si discute delle crisi in atto, si dà per scontato che delle contromisure siano state prese negli ultimi anni mentre, nella realtà, nulla di concreto è stato fatto.

Non è una visione troppo disfattista?

Mettiamo alla prova quanto appena affermato con un esempio: pensiamo alla rilocalizzazione. Sono anni che, ciclicamente, ci troviamo a parlare di reshoring, nearshoring e friendshoring e a parole sembra che questi trend stiano avendo un forte impatto sul mercato. E dovrebbe essere così, in teoria, perché la ridefinizione delle catene logistiche in una serie di settori può essere un passaggio ineludibile per affrontare i cambiamenti in atto. Nei fatti, però, praticamente nessuno sta seguendo questa strada perché evidentemente rilocalizzare e diversificare costa. Nonostante l’enfasi posta sempre più sul time-to-market di una gamma che spesso esplode, in effetti l’effetto “risucchio” dall’Asia è imbattibile per la minimizzazione dei costi. E si spera sempre che la tempesta passi e torni tutto come prima. Ecco, quindi, che tante belle idee restano al palo, sulla carta e nei dibattiti, nel concreto incompiute.

Ma perché?

Perché, lo ripeto, cambiare è evidentemente costoso e complicato, soprattutto oggi quando sembra impossibile avere un orizzonte certo di ritorno degli investimenti. Si grida “al lupo, al lupo” ma poi, finita l’emergenza, ci si ferma di nuovo e si spera che tutto riprenda a filare liscio come prima. Non c’è un approccio sistematico al risk management e, credo, ancor meno la volontà di pagare costose “polizze assicurative”.

E allora cosa deve succedere perché si cambi realmente?

Se le situazioni di rischio diventeranno sempre più sistematiche sicuramente ragionamenti concreti sulla riconfigurazione delle catene e delle supply chain dovranno essere intraprese. Con tutti gli annessi e connessi.

Vedo che non si fa problemi a dire le cose che pensa, anche se impopolari.

Lo faccio perché sono convinto che si debba partire dall’accettare che il cambiamento è inevitabile e non va, quindi, evitato ma compreso. Nel momento in cui le disruptions saranno tali e tante che sarà impossibile ignorarle e illudersi che lo stato ante quem possa essere ripristinato, solo allora si agirà concretamente. Prendiamo Suez.

Quale? La crisi di oggi o il blocco del 2021?

Ecco, già dover precisare è interessante, perché due eventi apparentemente scollegati – un incidente navale e un conflitto – hanno portato a risultati e conseguenti riflessioni simili. Soffermiamoci, però, per adesso, all’incaglio della Ever Given che ha bloccato per sei giorni un corridoio marittimo dove transitano il 12% degli scambi internazionali. Si trattava di un vascello cargo dalla capacità di 20mila teu che, bloccandosi ha formato una “coda” di oltre 400 navi. Ogni grande multinazionale che ha avuto la propria merce bloccata nell’incidente si è interrogata sull’opportunità di ridisegnare la sua intera supply chain, ma poi il Canale è stato sbloccato e non si è fatto nulla. E, credo, correttamente. Oggi, invece, vi è un dibattito legato ad una possibile maggiore “sistematicità” del rischio in quello specifico choke point ed area geografica, su cui evidentemente transitano interessi commerciali enormi.

In realtà ci sono stati casi di riorganizzazione delle catene, con progetti di nearshoring che hanno interessato il Nord Africa o la Turchia

Sicuramente non partoriti in sei giorni e neanche in un mese! Se si vanno ad analizzare i casi menzionati, si vedrà che si tratta di scelte strategiche complessive di disegno delle supply chain, dunque messe in campo da tempo, ed in specifiche industries. Faccio fatica, tuttavia, a ritrovare aziende di produzione di chips – in un periodo di spinta all’elettrificazione – in quelle aree. A meno che lei non si voglia riferire alle famose mascherine che avremmo dovuto produrre e distribuire in Italia. Ne ha più risentito parlare?

E allora qual è la soluzione?

Io non ho la soluzione in tasca. Ma da tempo il problema è sul tavolo e non vedo movimenti: manca il desiderio, l’urgenza di cambiare davvero le cose. Così, si continuano a sopportare costi crescenti per crisi che vengono percepite come transitorie e contingenti, senza trovare un approccio sistemico, come detto, soprattutto al rischio e a ciò che esso comporta.

Il primo passo?

Capire bene le disruptions e la loro natura, analizzare e valutare attentamente il rischio, come fossimo degli attuari. Comprendere quali sono effimere, quante potranno diventare cicliche e quante altre strutturali. E, ricorrendo le condizioni, agire di conseguenza sul ridisegno delle reti, come scelta strategica, e se e solo se siamo disposti ad assumerci i relativi costi. Ricordo, per inciso, che “diversificare le fonti” (di approvvigionamento, fornitura, produttive, ecc.) significa moltiplicare la capacità del sistema, il che, mi pare, comporti una moltiplicazione dei costi, e, dunque, del consumo di risorse. Poca sostenibilità. Per quanto sta accadendo oggi nel Mar Rosso: ciò che succede in quell’area mi preoccupa molto più dal punto di vista geopolitico che logistico, perché le merci, come sempre, trovano delle vie alternative.

  • Nome e cognome: Marco Mazzarino
    Luogo e data di nascita: Trieste, 23/2/1967
    Attività professionale: Professore associato di “Geografia dei Trasporti e Logistica” e “Geografia delle Supply Chain Globali” presso l’Università Iuav di Venezia e co-founder di Bestever Supplychain (start-up e spin-off universitario sui temi dell’innovazione nella supply chain).
    Hobby e passioni: sono sempre stato sportivo, anche bravetto. Passioni, troppe.
    Libro sul comodino: mi piace l’irriverenza di Clarkson, e a volte mi ritrovo (pensa te) sul comodino le serie di Ferrozzi, la bibbia di settore.
    Punto di forza: la tenacia e la costanza
    Tallone d’Achille: mi appassiono troppo al mio settore

Francesca Saporiti

Estratto dell’articolo pubblicato completo sul numero di marzo 2024 de Il Giornale della Logistica


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